"Signor Tappabuchi" - Elogio alla lettura ad alta voce (e a Daniel Pennac).
Con questo post partecipo ad
un nuovo esperimento di cross blogging dedicato alla “Giornata Internazionale
per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” che si celebra oggi, 20
novembre 2013. Assieme a Daniele Imperi, Ilaria De Vita, Roberto Gerosa,
Giuseppe Palomba e Francesco Magnani
proponiamo un “percorso letterario” da seguire attraverso i nostri blog,
dove alla fine di ogni articolo troverete, assieme ad un piccola introduzione,
l’autore ed il link di quello che viene dopo.
Buona lettura e perché no,
anche buon viaggio!
"Signor Tappabuchi".
Tappabuchi.
Questo io sono. Anni di
studi, speranze e sacrifici per ritrovarmi ad essere un numero in fondo a
qualche graduatoria comunale.
Ho sempre sognato di fare
l’insegnante e mi son sempre visto come un giovane pieno di sogni con tanta
voglia di fare, scalpitante al punto di partenza, pronto a scattare una volta
ottenuta la qualifica e l’abilitazione all’insegnamento.
Sogni che si sono afflosciati
ancor prima dello sparo del via, nella
gran corsa nel mondo del lavoro, quando ho sbattuto il naso contro la nuda e
cruda realtà del precariato.
Sono anni che mi ritrovo a
fare da tappabuchi, a coprire le assenze per malattie, ferie, esaurimenti
nervosi, scioperi, mancanze improvvise, calcolate o programmate. Ogni volta è
la stessa storia “stai una settimana, segui il programma che stava facendo o
fai ciò che ti ha lasciato scritto sul foglietto che troverai dentro al suo
registro, in sala insegnanti. Non serve molto, devi solo far passare il tempo
fino a quando quello di ruolo rientra.”
Stipendiato dallo Stato per
far passare il tempo. E per spostarmi in ogni dove, chiamate a qualsiasi ora
del mattino: “Pronto è Lei Tappabuchi? Ah, bene parta ora per andare a
sostituire l’ennesimo professore di ruolo - di solito quest’ultima parola viene
sottolineata con un tono sarcastico, tendente al sadico, dall’impiegato
dell’Ufficio Supplenze - mi raccomando, faccia presto perché la classe è
scoperta e solo il Signore sa cosa stanno combinando ora i ragazzi. I bidelli
si rifiutano di entrare per dare un’occhiata, dicono che son pagati troppo poco
ed il rischio è alto…” Anche qui il tono è sempre ambiguo, non sai mai se
scherza o se è tragicamente serio.
Stamane mi hanno chiamato
presto. Ho bevuto un caffè annacquato al mentolo: dovrei smetterla di lavarmi i
denti prima di colazione e magari fare il contrario. Ho preso la mia borsa a
tracolla in pelle, quella ricevuta da mio fratello per la laurea - “riempila di
soddisfazioni”- mi disse, ed infilo
velocemente alcuni testi che ho sul comodino e che potrebbero servirmi, anche
se so che non accadrà, d’altronde ho tutto scritto sul foglietto che troverò in
sala insegnanti, ricordate? Devo solo seguire le “istruzioni”.
Cammino per strada per
raggiungere il garage e mi accorgo che l’aria s’è fatta pungente, siamo a
novembre e l’inverno è ormai prossimo. Monto in sella alla mia bicicletta
acquistata di quarta o forse anche quinta mano, che ancora onora l’asfalto
sfrecciando tra il traffico mattutino, una schizzata di ruggine tra lo smog
della civiltà odierna e raggiungo ben presto la scuola.
Dopo le presentazioni di rito
con il Preside ed il suo vice, volo in sala insegnanti dove il registro del
professore assente giace sul tavolo, una lapide blu in sua memoria, con un’etichetta bianca posta in mezzo, dove
immaginare il giusto epitaffio. Lo apro trovando il foglietto che, il mio alter
ego indeterminatamente più fortunato, ha lasciato scritto per me: “Questa
settimana potranno scegliere un libro dalla lista che ti trascrivo più sotto,
leggerlo e scriverci su un tema. Classe turbolenta, disinteressata. Non ti
invidio, inutile perderci tempo.”
Mi dicono che il mio alter ego
s’è aggiudicato una settimana per riprendersi da un esaurimento nervoso. Ne
colgo tutti i tic nella calligrafia sconnessa e leggo velocemente i titoli che
“picchiatello” m’ha lasciato. Son bei libri, in verità, ma potrebbero risultare
pesanti per chi non è stato iniziato al piacere della lettura e quei due
aggettivi dopo la parola “classe” fanno sperare ben poco a tal proposito.
Ripenso a quest’ultima cosa
mentre percorro il corridoio che mi condurrà dai miei studenti.
Toh, il bidello che si
rifiutava di dare una controllatina ai ragazzi è seduto, impegnato ad infilar
perle di vetro in un sottile filo di nylon in quel che dev’essere un metodo per
arrotondare mentre mi pare di scorgere, in lontananza, una palla di polvere
prende da sola l’ascensore. Ottima metafora, penso.
Quando varco la soglia dell’aula
creo il solito parapiglia generale: tutti prendono posto al proprio banco,
abbandonando velocemente ciò che stavano facendo, attività che, mi pare ovvio
credere, non riguardassero affatto la scuola. Non dico nulla e mi siedo. Loro
mi guardano. Io guardo loro.
Appoggio la mia borsa sulla
cattedra, un movimento goffo mi fa perdere la presa e ben presto il ripiano del
mio tavolo è colmo dei libri che avevo portato con me. Qualche risata
accompagnata da un paio di colpi di tosse mi fa capire che me li sono giocati, mi
son fottuto alla grande. Cerco subito il foglietto con la lista lasciatami da
Picchiatello per poter recuperare terreno, riprendere in mano le briglie,
essere l’uomo della situazione, il capo branco e… non lo trovo!
Niente, sfoglio i miei libri
per vedere se per caso è finito in mezzo ad uno di questi, riprendo la borsa,
rovisto dentro con la mano, mi ci tuffo con la testa scandagliano ogni
centimetro al suo interno. Nulla ,il foglio con le “istruzioni” è sparito.
Mentre penso il mio sguardo
scivola su uno dei libri che avevo in borsa “Signori bambini” di Pennac. Lo
fisso e per un attimo mi rivedo bimbo, assieme a mio padre che me lo lesse poco
dopo la morte di mio nonno: chi narra la storia è il fantasma del padre di uno
dei piccoli protagonisti del romanzo. Non ho mai capito se mio padre lo
leggesse per me o più per se stesso, forse in cerca di chissà quale bislacca
consolazione, ma ricordo che fu l’unica volta che mi dedicò del tempo per
leggermi a voce alta un libro ed è per questo che porto sempre una copia con
me, per affetto, nostalgia e come portafortuna. Anche perché è da quel momento
che ho deciso di fare l’insegnante. Ero rimasto affascinato non solo dalla
trama del libro ma anche dalla voce di mio padre e di quel tempo che, dedicato
a me e solo a me, dilatava lo spazio a noi attorno, la casa, il mondo, la vita.
Nel ricordare ciò ho gli
occhi liquidi, così come i ricordi che veloci mi scivolano davanti e mentre i
ragazzi con aria divertita mi tirano giù con un cellulare per sbattermi in
chissà quale canale tematico di YouTube, io faccio la prima cosa che più mi
viene naturale, in onore di mio padre, di mio nonno e dei miei sogni di bambino:
prendo in mano “Signori Bambini” e inizio a leggerlo ad alta voce. Puro
istinto, quello dell’uomo che ama la sua professione e che lo aveva dimenticato
a causa della durezza della vita, rinnegando qualsiasi foglietto con istruzioni
o liste di sorta.
Leggo tra lo sbigottimento
generale. Leggo tra il silenzio diffidente di chi, da lì a poco, inizia a tempestarmi
di domande, preoccupato più per la sua sorte scolastica che per un mio
rincoglionimento improvviso, domande alle quali rispondo rapido senza però
interrompere la mia lettura a voce alta.
“Leggerà tutta l’ora, Prof.?”
“Sì”
“Dobbiamo prendere appunti
Prof.?”
“No.”
“Ci farà fare un tema poi?”
“No.”
“un compito?”
“No.”
“Un questionario?”
“No.”
“Ma che cosa dobbiamo fare?”
“Ascoltare!”
Cala il silenzio. C’è chi
gioca con il telefonino sotto al banco, chi ripassa gli appunti per
l’interrogazione dell’ora dopo, chi disegna sul diario e chi… ascolta. Pochi in
realtà ma io non demordo e continuo. A fine lezione quello che disegnava sul
diario lo ha fatto sparire e colgo il suo sguardo fisso sui miei movimenti
labiali. Anche quello di altri a dire il vero; al suono della campanella chiudo
il libro e mi congedo accorgendomi che non mi sono neanche presentato ai
ragazzi.
La volta dopo uso lo stesso
copione: entro, mi siedo, tiro fuori “Signori Bambini” ed inizio a leggere da
dove avevo smesso la lezione prima.
“Prof. Anche oggi leggerà
tutta l’ora?”
“Sì”
“Ma noi cosa dobbiamo fare,
scusi?”
“Ascoltare.”
Riprendo a leggere. A fine
lezione mi accorgo che anche il ragazzino che la volta scorsa ripassava gli
appunti sta con i gomiti sul banco, le mani a sostenere il mento in attento
ascolto assieme all’artista del diario e a quegli altri che fin dall’inizio
avevano seguito la lettura. Non demordono Mister Iphone ed il gruppetto in
ultimo banco che, durante l’ora, hanno preferito preparare una canna da
passarsi in bagno a ricreazione.
Alla terza lettura alcuni
hanno con loro una copia di “Signori Bambini”, quelli dell’ultimo banco si sono
già avvantaggiati nei preparativi tenendo una cicca pronta all’uso dietro al
proprio orecchio mentre Mister Iphone tiene il cellulare in mano ma fissa il
sottoscritto.
Alla quarta, quando entro in
classe son tutti seduti composti, in attesa. Una ragazzina con gli occhiali si
alza in piedi e con un cipiglio che niente ha da invidiare a qualsiasi
dittatore del globo esclama: “Allora iniziamo o no che son curiosa di vedere
come va a finire?” con voce baritonale in totale contrasto con la sua esile
figura.
Alla quinta volta, che
sancisce anche la fine della mia settimana di supplenza, tutti ascoltano in un silenzio
fatto di suspense ed ingordigia nel voler sapere come va a finire; il bidello
fa capolino e ci guarda tutti, la troppa
calma lo ha insospettito e con un pretesto entra in aula, forse per assicurarsi
che non sia in pieno delirio di onnipotenza dopo aver compiuto una strage di
alunni.
Purtroppo non riesco a
terminare il libro. Quando squilla la campanella della mia ultima lezione i
ragazzi quasi insorgono.
“Ma no.. e ora?”
“Dipende da voi…” mentre
agito il libro in loro direzione, sorridendo sornione.
“Prof. lo sa che Lei non c’ha
detto neanche come si chiama?”
Già, verissimo. Che
maleducato!
“Gerolamo Tappabuchi”
Ah! Lo so che state ridendo:
Tappabuchi di nome e di fatto. Credevate che scherzassi all’inizio, eh? Nel nome
un destino e non mi soffermerò su quanto possa essere tragicomico nascere con
un cognome del genere.
Son passati quasi dieci
giorni. Dopo una lunga pausa dai Social Network, oggi accedo al mio account
Facebook e strabuzzo gli occhi nel vedere diverse richieste d’amicizia e
messaggi.
“Prof. ho finito Signori
Bambini. Bellissimo!”
“Ho dovuto iniziarlo di nuovo
perché avevo perso la prima parte…”
“L’ho letto due volte”
Mi commuovo e non posso fare
a meno di rileggere più volte i messaggi che mi hanno inviato. Mister Iphone
s’è fotografato davanti allo specchio del bagno con una copia del libro in mano
e mi ha taggato sull’immagine. Mentre tiro su con il naso mantengo lo sguardo
fisso sul monitor ed è in quell’esatto momento che il mio cellulare vibra: “Tappabuchi
è Lei? “C’è una classe scoperta…”
Questo racconto in parte è
immaginazione. Dall’altra riprende qualcosa dalla sottoscritta (per esempio uno
dei i miei libri preferiti è proprio “Signori Bambini”). Ma soprattutto, questa
storia, si ispira ed è dedicata a Daniel Pennac, insegnante e scrittore che
adoro, autore di moltissimi libri che in passato mi hanno divertito, fatto
pensare e addirittura commuovere.
Tra questi vorrei segnalarvi
“Come un romanzo” edito da Feltrinelli e che ruota, per l’appunto, attorno
all’amore verso i libri e la lettura, inteso come passione da trasmettere e non
come obbligo da imporre.
Pennac in “Come un romanzo”
inizia dal piacere che le fiabe e le storie suscitano nei bambini più piccoli
per poi chiedersi che cosa accade, ad un certo punto, per giungere all’astio
che molti adolescenti provano nel dover affrontare un testo o una lettura. Di
chi è la colpa quindi? Dei genitori che obbligano? I programmi scolastici? La televisione, la musica o qualunque altra
cosa che distrae il giovane portandolo lontano dalle parole di un libro?
Forse la risposta sta
nell’imperativo che molti verbi sembrano non sopportare come “amare”, “sognare”
e… “leggere”.
Vietare qualcosa ad un adolescente
è come dirgli di farlo.
“Non guardare la Tv e leggi
un libro” pare trasformarsi nei pochi istanti in cui esce dalla vostra bocca
per saettare dentro le orecchie dei vostri figli in “Mettiti davanti alla Tv”.
La parola “libro” sparisce, chissà dove e perché, senza andar a solleticargli
il timpano.
E i professori? Molti non si
interessano, altri obbligano, altri ancora optano per la spiegazione
nozionistica ma il piacere, quello vero che
il lettore prova davanti alle parole, alla storia, ai personaggi di un
libro come si fa a trasmettere?
Pennac chiama in causa i
diritti del lettore che genitori e professori dovrebbero tenere conto e la
dimensione temporale del leggere che in concreto non esiste e che ognuno deve imparare a ritagliare
dal proprio quotidiano, così come facciamo quando amiamo e sogniamo. Assurdo
nascondersi dietro a un “non ho tempo per leggere” perché questo si trova,
sempre e comunque, basta volerlo.
E quali sono questi diritti
del lettore, allora?
Il diritto di non leggere.
Il diritto di saltare le
pagine.
Il diritto di non finire il
libro.
Il diritto di rileggere.
Il diritto di leggere
qualsiasi cosa.
Il diritto al bovarismo
(malattia testualmente contagiosa).
Il diritto di leggere
ovunque.
Il diritto di spizzicare.
Il diritto di leggere ad alta
voce.
Il diritto di tacere.
Mi piacerebbe soffermarmi su
ognuno di questi ma se lo facessi vi toglierei il diritto di leggere questo
libro, non credete?
Vi invito però a rileggere la
lista, a pensarci su e a scegliere il diritto che più vi piace chiedendovi
anche il perché.
Prima delle conclusioni vi
lascio questa citazione di Pennac: “Il tempo per leggere, come il tempo per
amare, dilata il tempo per vivere” come risposta da darvi ogni volta che
vorreste aprire un libro e vi dite “Non ho tempo”. Regalarvi e regalare a chi
ci sta accanto il nostro tempo è il dono più prezioso che potreste fare.
Conclusioni
Se guardo indietro per capire
perché leggere libri mi piaccia così tanto mi tornano in mente alcuni ricordi:
mio nonno, la sua lente d’ingrandimento per leggere e fare i cruciverba della
Settimana Enigmistica; mio padre che porta a casa l’ennesimo libro consapevole
che mia madre gli farà notare che non c’è più posto in libreria; io che ancor
prima di saper legger “rubo” il vocabolario e fingo di fare i compiti come i
miei fratelli più grandi; la bibliotecaria delle elementari che, con orrore ed
indignazione, mi sbatte un libro in testa quando le rispondo che tutti i titoli
che mi ha proposto per la lettura pomeridiana mi fanno schifo…
Il piacere di leggere deve
essere spontaneo, scaturito dalla curiosità di voler esplorare altri mondi per
poter allargare il proprio. Ciò potrà accadere solo con l’esempio che darete ai
vostri figli, suggerendogli questa possibilità. Solleticate in loro la
curiosità impastandola con la vita che, con lo scivolare degli anni, si
suddividerà in episodi, i ricordi per l’appunto, con i quali chi amiamo terrà
viva in sé la propria voglia di conoscenza, consapevoli che in questa risiede
la libertà di scelta se farlo o meno, libertà che va rispettata. Perché
rispettare può essere, per l’altro, l’occasione in più per capire.
Quindi non è solo un dire,
che altrimenti si tradurrebbe nell’imporre di cui si è parlato sopra, ma anche
un fare e lasciar fare soprattutto.
Come per amare, sognare e…
leggere!
Sylvia Baldessari
L’articolo che segue è di
Ilaria De Vita e tratterà di tutti quei libri che stimolano la curiosità, l’interesse
e la fantasia dei bambini: "I libri-gioco e quel genio di Hervè Tullet."
Buon proseguimento, il vostro
viaggio continua!